Perché vivere, se tutto finisce?

Perché vivere, se tutto finisce?

Gabriella Caramore

 

Possibile che davvero tutto accada in quell’unica vita, vissuta una volta soltanto? E se proprio si deve finire, possibile che invece di completare in pienezza il ciclo dell’esistenza, si debba patire l’umiliazione del lento, doloroso spegnimento? Sono domande che rimarranno senza risposta o sono le stesse domande a essere mal formulate

Fatichiamo a elaborare un linguaggio in grado di placare ansie, smarrimenti, paure, e in grado di esprimere la «grandezza» del problema. Si rimane stupiti perché l’era tecnologica, che sembra in grado di risolvere ogni complicazione, con il ricorso agli algoritmi, alla rivoluzione digitale, all’intelligenza artificiale, alle vertiginose trasformazioni in ambito economico, sociale, culturale, fallisce di fronte allo scoglio delle questioni fondamentali della vita umana. Non è per rimozione, per edonismo, per indifferenza che si parla in maniera insoddisfacente della caducità e della morte.

Al contrario. Sotto una loquacità distratta io credo si nasconda un mutismo impotente, perché è incredibilmente difficile dire qualcosa che abbia un senso al di là delle considerazioni che ci vengono dalla biologia, dalla medicina, dalla sociologia, dai vecchi codici religiosi, dall’osservazione quotidiana. Di nuovo, oggi come nei tempi di grandi trasformazioni, l’essere umano è inquietato da sé stesso, incomprensibile a sé stesso. Forse proprio quando ogni certezza si sbriciola, ogni punto d’appoggio culturale, politico, sociale viene meno, e tutto sembra vacillare, gli umani, saturi di discorsi, di opinioni, di menzognere visioni, possono spingersi a misurarsi in una nuova avventura, ricominciano a tessere una mappa di parole. Pochi balbettii sommessi, avvertiti sotto traccia al di qua del frastuono del mondo.

Per questo, anche, si scrive”. Si sono moltiplicate le memorie di chi vuole raccontare la vecchiaia propria o dei propri familiari, la morte di una persona cara, o quella a cui egli stesso è prossimo. Si scrive perché si pensa. Si pensa perché si vive. «Scrivo per orientarmi», spiega la dottoressa Iona Heath, raccontando le sue riflessioni sui modi di morire» che ha incontrato nella sua esperienza umana e professionale. «Scriviamo per ragioni varie» diceva lo storico della lingua Luca Serianni: «una di queste è quella di parlare con noi stessi.» Ma anche di instaurare, con discrezione, un confronto con l’altro. All’uomo, alla donna che si accorge di aver varcato la porta della vecchiaia, sono di poco aiuto, di poco interesse i trattati, gli studi, le ricerche di carattere medico o sociologico o teologico dedicati al tema della caducità dell’umano e della morte. Aiuta, forse, perché apre piccoli spiragli nell’orizzonte che si è fatto basso, trovare quel breve pensiero condiviso, riconoscere una piccola esperienza comune, che possano favorire la costruzione di una nuova mappa “per orientarsi in quel terreno sconosciuto in cui ciascuno sente di cominciare una vita nuova.

(Gabriella Caramore L’età grande, Garzanti)

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Commento

Ho letto e riletto diverse volte, ho pensato e ripensato le verità sulla vecchiaia contenute in questo libro. E non sono di poco conto. Come ci si avvicina alla vecchiaia, come si vive la vecchiaia, e specialmente il suo ultimo tempo. Tempo che scorre più velocemente rispetto a quello di ieri, e se ne scorge la fine, o si fa finta di non vederla, celandola con pseudo-riempimenti, con attivismo fittizio e vuoto.

Poco si pensa che la vecchiaia è un’altra vita, una nuova avventura nel modo di essere e di vivere, una “età grande” non solo per il numero degli anni, ma anche per l’esperienza accumulata che costituisce il bagaglio che ogni vecchio si porta sulle spalle.

Ma quando comincia questa età grande? Di solito, quando finisce l’impegno lavorativo attivo. Se nei primi tempi si fa una esperienza di libertà da un impegno forzato di decenni, successivamente e gradualmente subentra un sentimento di vuoto, la monotonia del vivere giornate quotidiane, della mancanza di un impegno altro da quello di prima. Resta la ripetitività delle giornate, l’assenza del desiderio di una realizzazione di sé diversa, della scommessa di vivere con passione il presente in modo nuovo.

Perciò avere una passione e coltivarla o continuarla ora, a tempo pieno, se c’era prima, è una grande risorsa vitale.

Ma l’”età grande” è anche tempo di bilanci sul senso della nostra vita, tempo di silenzi e tempo di scrittura, per chi può farlo, della propria storia, nella speranza di lasciare traccia di sé come eredità preziosa, perché gli altri a noi più vicini possano capire un po’ più di sè e di noi. Perché spesso viviamo sconosciuti a noi stessi, per quello che non conosciamo e non sappiamo della nostra storia.

La vecchiaia è anche il tempo del silenzio attivo, del discernimento del valore e del senso della vita, specialmente quando si ha la percezione di un tempo che sta per finire, del tempo di fare i conti con se stessi, prima di tutto, e con i familiari più vicini.

E così “possono spingersi a misurarsi in una nuova avventura”, quella di scrivere pacatamente, e con il distacco dovuto, la propria storia familiare, che è prima di tutto “un parlare con se stessi”, ma anche un parlare con i nostri familiari, a cui si affidano, lasciando l’eredità della storia. Allora emergono eventi, fatti, esperienze, difficoltà, responsabilità, storie non conosciute, ma che aiutano a capire le relazioni vissute nel presente, ma che possono avere radici nel tempo passato e così poter vivere meglio nel presente.

Io ho pensato a scrivere la mia storia vent’anni fa, alla morte di mio padre, che qualche mese prima, mi aveva chiesto, in una sera d’estate sul balcone di casa, rompendo il suo solito silenzio, prossimo a festeggiare i suoi novant’anni: “Mi raccomando, non ti dimenticare di me”.

Ma fra tentativi e rimandi sono passati altri dieci anni prima di iniziare scrivere la mia storia, che continuo a scrivere ancora, perché c’è sempre storia, se c’è vita.