Quando si rompe la relazione psicoterapeutica
Giuseppe Basile
Ogni relazione terapeutica è un incontro cercato e specifico fra due persone distinte, in cui un paziente si affida ad un terapeuta per essere aiutato a superare suoi blocchi evolutivi e suoi stati di malessere psichico o relazionale.
Inizialmente si stabiliscono le modalità di svolgimento delle sedute terapeutiche, i costi, i tempi, le frequenze, nel mio caso, le videoregistrazioni delle sedute. Ma soprattutto si specifica che gli attori del processo terapeutico sono almeno due, paziente e terapeuta, con compiti diversi, ma che prevedono una alleanza terapeutica sulla condivisione di obiettivi, sulla definizione di compiti reciproci, e i reciproci ruoli. Fattore aspecifico di grande efficacia clinica dell’alleanza, emerge dall’interazione tra due variabili principali: da una parte i comportamenti, le emozioni e i pensieri del terapeuta, dall’altra le proiezioni transferali che nascono dalle esperienze passate del paziente.
Il tutto subordinato al tipo di legame relazionale che si costituisce fra i due, caratterizzato fondamentalmente da fiducia e rispetto.
La psicoterapia è un percorso più o meno lungo e accidentato che paziente e terapeuta fanno, è un lavoro di ricerca paradossale di quello che non si conosce, di scavo, di costruzioni di mappe per capire meglio il sintomo.
Lungo questo cammino si può fare la scoperta imprevista che in seduta non sono presenti solo terapeuta e paziente che dialogano, ma sono presenti altri interlocutori invisibili. Cioè, sia il terapeuta sia il paziente, possono fare la scoperta di essere accompagnati da altri propri sè invisibili, che sono nostri compagni di viaggio con cui interloquiamo istintivamente, o per somiglianza o per opposizione. Quante volte ci è capitato di fare, dire cose che agli occhi degli altri che ci conoscono appaiono incomprensibili, improprie. Sembra che il nostro interlocutore, e noi a lui, non sia più quello conosciuto, ma un altro, sfuggente o molto presente, con una ambivalenza di sentimenti.
Così, di volta in volta nelle sedute scopriamo, sia paziente che terapeuta, che vediamo e siamo visti in modi diversi e che questa diversità sostanziale di immagine ci rende inconoscibili. E’ come se l’altro vedesse nel mio specchio una figura diversa da me e altrettanto di conseguenza, per reazione, io vedessi nel suo specchio una persona sconosciuta.
L’analisi così diventa più complessa, i personaggi che si presentano di volta in volta sono diversi, ma che con il tempo vengono riconosciuti ognuno con tratti di personalità diversa, in qualche modo riferibili ad una modalità del paziente, e nominabili per distinguerli con un numero o un nome. Altrettanto potrebbe succedere al terapeuta visto dal paziente. Ne consegue prima o poi che la relazione terapeutica ne soffra per la presenza di questi interlocutori, imprevisti e imprevedibili, ognuno con il suo modo di relazionarsi con la personalità del terapeuta in funzione dei suoi bisogni, desideri, impulsi.
Per questo il lavoro psicoterapeutico è un percorso, un viaggio fra due sconosciuti che si incontrano verso una meta condivisa ognuno con la sua diversità e con la sua unicità.
“Il paziente e l’analista non sono d’altra parte soltanto due individui, ma più individui; più individui fatti da molti e diversi aspetti del sé e degli oggetti con cui il sé è stato in rapporto, e dunque si tratta di vedere sempre “chi parla a chi” in un determinato momento e come subito dopo nel dialogo successivo possano cambiare gli interlocutori, tenendo in mente che a volte non vi è assolutamente dialogo, nel senso che non è ancora possibile delineare chi sono gli interlocutori presenti nella seduta (Intervista a Franco Borgogno )
Il possibile conflitto è così latente e in agguato, specialmente se uno di questi personaggi si contrappone criticamente e apertamente al terapeuta, tanto che l’alleanza terapeutica è sottoposta a naturali dinamiche non contemplate inizialmente e destinata a una grave crisi o alla rottura.
Quando l’eventuale strategia controllante messa in atto dal paziente è di tipo punitivo, il terapeuta, ora bersaglio di critiche e valutazioni negative espresse continuamente dal paziente, può recuperare un certo grado di organizzazione del proprio stato mentale tentando di fare una attenta autoanalisi alla luce della storia della terapia così come si è evoluta nel tempo.
“Che l’analista sia “morto” e non vivo. Anche quando è morto, se accetta la dolorosa via di cercare di capire che cosa ha determinato questo, la vita comunque può ritornare e l’analisi può così rimettersi in moto. L’“analista morto” infatti non può né emozionarsi, né pensare a quanto l’ha emozionato portandolo a spegnersi. Ciò che l’ha fatto spegnere può infine derivare da lui, dal paziente e/o dal loro incontro: ciò va investigato. Un’analisi – voglio aggiungere – richiede necessariamente periodi di “morta”, che vanno tuttavia distinti da quando è la curiosità emotiva e cognitiva dell’analista che si è spenta”. (intervista franco Borgogno)