Un giorno, durante una di queste discussioni alla ricerca delle nuove parole per l’Italia, una ragazza di quindici anni ha alzato la mano. Torinese, istituto tecnico, una montatura scura che incorniciava occhi che guardavano dritto dentro gli occhi. È rimasta a lungo con il braccio in aria, aspettando che si spegnesse il fuoco della discussione precedente tra i ragazzi. […] Quando è arrivato il suo turno, la ragazza ha abbassato il braccio, si è schiarita la voce e ha detto che lei non era più tanto convinta di andare a scuola. Il silenzio è caduto nella stanza come fosse venuto giù il soffitto. Ha detto che erano stati i suoi genitori, in fondo, a farle venire quel dubbio. Ma non dava la colpa ai genitori – ha precisato come per difenderli dalla condanna che tutti silenziosamente stavamo elaborando –, perché era lei stessa a non essere più convinta.
Poi ha detto che secondo lei non era la sola a pensarla in quel modo. La scuola? E poi l’università? Per cosa? Con quale certezza? Altri ragazzi mi avevano detto la stessa cosa, negli ultimi mesi. E nel mio quartiere erano parecchi, i ragazzi che avevano lasciato già da un po’: qualcuno lavorava, qualcuno non s’era visto più, altri andavano in giro in motorino. Io le ho chiesto se fosse solo un dubbio o se avesse già deciso di lasciare. Lei si è messa a ridere, e per la prima volta da quando partecipava a quel progetto è arrossita. Il suo rossore è servito per allentare la tensione che era gonfiata nella stanza. Qualcuno ha lanciato in aria il petardo di una scemenza, e gli altri si sono messi a ridere. La sua considerazione – che aveva tutta l’aria di un coming out – è stata travolta da un lato da sommarie apologie della scuola, e dall’altro da adolescenziali istinti di fuga: non tanto la voglia di lasciare la scuola quanto piuttosto l’aspirazione a vivere tutto l’anno al mare, il desiderio di dormire fino a mezzogiorno, di andare a trovare lo zio di Barcellona, di mangiare cannoli alle undici del mattino, e così via. Insomma tutto il consueto sciocchezzaio con cui un adolescente di colpo si concede il lusso di rifugiarsi per qualche minuto nel bambino che è stato, di mettersi al riparo dall’infuriare di un’età in cui tutto e niente si danno duello ogni giorno.
Ecco: quel dubbio messo sul tavolo da una ragazza di quindici anni, che aveva avuto la pazienza e la determinazione di tenere un braccio alzato pur di far sapere a tutti il rovello che aveva, in un attimo ha creato un piccolo scompiglio. In un attimo, con un gesto – alzare la mano per parlare – ha addensato, ha fatto diventare violentemente corpo decine di articoli e statistiche che, pubblicate sui giornali, dopo un giorno finiscono dentro il contenitore della carta. Lo sguardo disincantato di una ragazza che esprimeva una perplessità guardandoci in faccia ha rovesciato tutto quello che c’era sul tavolo: percentuali di abbandono superiori alla media europea (17,6% contro il 12,7%, secondo l’Annuario Statistico dell’Istat), numeri di ragazzi messi in mezzo a slavine di parole («Record dell’abbandono in Italia», «7800 studenti in un anno») e persi per strada, usciti da scuola dopo l’ultima ora e mai più rientrati il giorno dopo. Era come se si fosse spalancata una finestra e fosse entrato un sibilo di vento che li (e ci) avesse presi tutti alle caviglie. Quel sibilo di vento era la domanda ingenua ed enorme di una ragazza che si chiedeva se avesse ancora un senso – davvero – nella sua vita, continuare ad andare a scuola. O se invece non fosse meglio, più semplicemente, smettere. È caduta scombinando tutti i codici, quella domanda, come se la ragazza stessa fosse salita in piedi sul tavolo e gli altri si fossero accorti soltanto dopo un po’ che non stava affatto scherzando. A quel punto, però, non erano più in grado di reggere la tensione, dove vano per forza ritornare più piccoli della loro età: non potevano restare coetanei di una persona che faceva affermazioni così pesanti da portare. Allora sono intervenuto io, ho tentato di riscaldare un po’ il clima e ho chiesto alla ragazza se per caso avesse una parola da proporre, buona per dare conto di quell’idea. Lei ha taciuto un attimo. Un ragazzo si è inserito ridendo e ha detto: «Pigrizia!», e gli altri gli hanno obiettato semplicemente che non era un neologismo. Non contento che il suo umorismo non fosse stato apprezzato, il ragazzo ha detto: «Pigrezza», ma è stato sbeffeggiato senza nessun tipo di complicità. Intanto la ragazza mi guardava, di nuovo con il braccio alzato, ed era evidente che la parola ce l’aveva già in testa da un pezzo. Ha preso fiato e ha detto: «Propongo la parola Rinuncianesimo».
Tutto si è fermato. Alla maggior parte dei ragazzi è comparsa un’increspatura sulle labbra – come un sorriso –, l’evidenza e la conferma dell’efficacia di quella parola. Io l’ho guardata e nello sguardo dovevo avere una specie di sconfitta, perché lei mi ha chiesto: «Non va bene?». Io le ho detto che volevo piuttosto che me la spiegasse meglio. Lei ha cominciato a dire: «Dunque: i miei genitori». Io, però, mentre lei parlava mi sono distratto. Mi erano venute in mente quelle famiglie in cui non si discute nemmeno più perché si è smesso di provarci, in cui ci sono queste cene in cui nessuno parla e c’è sempre quello che aspetta l’ultimo boccone degli altri per alzarsi e andare dritto in camera. E mi era venuto in mente un articolo che avevo letto sul giornale pochi giorni prima e che parlava di tutte quelle persone – oltre un milione, c’era scritto – che non cercavano più lavoro perché avevano cercato troppo e si erano viste troppe volte sbattere la porta in faccia. Più di un milione di persone che non provavano nemmeno più a cambiare la propria condizione, che rinunciavano. E alle quali si aggiungevano quelle che rinunciavano a curarsi perché non avevano i soldi, o le liste d’attesa erano troppo lunghe. E mi era venuta in mente – lì, davanti a una ragazza di quindici anni che voleva lasciare la scuola – una signora che un giorno aveva lasciato la macchina in mezzo a un incrocio ed era scappata via piangendo. E, ancora, avevo pensato a quel momento in cui, correndo verso la fermata del bus, di colpo si smette di correre, si smette di credere che la si potrà raggiungere davvero. Perché c’è un momento esatto in cui si rinuncia, in cui tutto il corpo alza bandiera bianca. E mi chiedevo – di fronte a quella ragazza che nel frattempo aveva smesso di parlare perché aveva capito che non la stavo più ascoltando – qual era il punto esatto in cui l’Italia aveva smesso di correre, in cui aveva lasciato andare le braccia lungo i fianchi e aveva permesso che le sue gambe si fermassero.
C’è uno sguardo che ha, chi si ferma in quel modo. Lo sguardo che abbiamo tutti quando rinunciamo. Si smette di guardare avanti, verso il punto che cercavamo di raggiungere. E ci si guarda i piedi. Nient’altro. Mi sono scusato con la ragazza e le ho detto: «Perdonami, mi sono distratto. Continua pure». E lei mi ha fatto un sorriso così protettivo che per un attimo mi sono imbarazzato. Ha preso fiato e ha detto: «I miei genitori mi hanno detto che andare a scuola, poi scegliere l’università che mi piace, non mi cambierà la vita. Sono d’accordo: troverò lavoro? No». Infine ha detto: «Secondo me hanno ragione gli adulti quando dicono che se valesse la pena avrebbe senso studiare. Ma così no. Se siamo sinceri lo sappiamo tutti – ha detto poi rivolgendo lo sguardo agli altri ragazzi nella sala –, solo che qualcuno si vergogna a dirlo: la scuola non serve a niente”.
Andrea Bajani – La scuola non serve a niente – Laterza – Gruppo Editoriale L’Espresso 2014