6. “Si alzò e si incamminò verso suo padre”.

6. “Si alzò e si incamminò verso suo padre”.

 

Scena seconda 3 (Lc 15,18-20)

“Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò:

“Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te;

non sono più degno di esser chiamato tuo figlio.

Trattami come uno dei tuoi garzoni.”

Si alzò e andò verso suo padre”.

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Commento

Si alzò e si incamminò verso suo padre. C’è ravvedimento e pentimento vero in questo tempo di riflessione del figlio caduto e fallito? O è solo una scelta dettata esclusivamente dal bisogno materiale di chi ha perso tutti i suoi averi e si accontenta di avere pane in abbondanza nella casa del padre come avevano tutti gli altri garzoni? Sia Recalcati, sia Farinella rispondono che è solo la fame a spingere il figlio ad incamminarsi verso il padre, non c’è vero pentimento.

“È dopo questo ragionamento che il figlio prende la decisione di partire e di incamminarsi verso il padre. Ma questo ragionamento non rivela ancora una sua comprensione adeguata della Legge. In esso prevale piuttosto una sorta di calcolo cinico che assume la dichiarazione della propria colpa solo come una strategia per ottenere clemenza dal padre. Questo significa che per il figlio la Legge è ancora il luogo di un’azione solo sanzionatoria. Partito sul passo falso di un fraintendimento della Legge, si muove verso casa ancora vincolato allo stesso fraintendimento. La Legge resta ai suoi occhi solo il luogo del giudizio e della punizione. La sua applicazione escluderebbe severamente l’eccezione; il padre non conoscerebbe l’amore. La colpa del figlio non è nella giusta volontà di separazione, ma nel fatto che questa volontà animi il fantasma del padre come colui che vuole la mutilazione, la repressione della sua vita.” (Massimo Recalcati Il segreto del figlio pag.94-95)

“Ritorno senza conversione Esaminiamo le ragioni del «ritorno in sé» del giovane figlio. Questi fa il confronto tra sé e i salariati di suo padre. Vi sono due idee sottintese: da una parte il figlio ammette che suo padre non è un padrone despota, come ha voluto farci credere all’inizio, quando non vedeva l’ora di andarsene, ma ora diventa un «padre» attento alle necessità anche dei suoi dipendenti, visto che essi «hanno pani in abbondanza». Se anche il salariato sta bene, addirittura ha il superfluo in casa di suo padre vuol dire che quest’uomo non è così malvagio da volerne la morte. Il motivo della fuga quindi non sta nel padre e nel suo autoritarismo, ma il problema ritorna tutto nel figlio che ha una grande confusione in testa e nel cuore. Dall’altra parte, il figlio non pensa al padre e al suo dolore; non è pentito di ciò che ha scelto e fatto e delle conseguenze che ha provocato. Egli, di fronte a tutte le porte chiuse, intravede una sola possibilità: usare e sfruttare ancora una volta il padre. Ha preso coscienza di non avere altro futuro che la morte: lo me ne sto qui a morire per carestia, mentre i dipendenti di mio padre … È l’invidia, il confronto, la rabbia contro il mondo cinico e baro, perché questo giovane sicuramente pensa di essere stato sfortunato e quindi di non avere alcuna colpa, ma solo circostanze avverse. Nessun ragionamento potrebbe essere più egoista di quello del figlio giovane: non è lui a sbagliare, ma il mondo a non capirlo: l’eterno meccanismo dell’incompreso.” (Paolo Farinella, Il Padre che fu madre pag. 155)

Le due interpretazioni propongono lo stesso significato del comportamento del figliol prodigo, anche se con chiavi diverse, psicoanalitica quella di Recalcati, religiosa quella di Farinella, e forse il primo è stato influenzato dal secondo, visto che Recalcati ha letto Farinella: la sua è stata una scelta di comodo, nessun cambiamento sincero è rilevabile.

Ma perché negare la sincerità di un ravvedimento di un figlio, se nel testo evangelico non ci sono segni certi (a parte l’esegesi biblica e linguistica che fa Farinella) di questa mancanza di pentimento?

Perché ridurre la portata liberatoria e la carica di speranza di quell’entrare in se stesso e uscirne con una secca decisione: Si alzò e andò da suo padre. Già l’uso del verbo alzarsi è più pregnante del semplice levarsi, rivela una condizione, lo star seduto, fermo, immobile, l’aspettare l’ora dell’attesa finita, dell’alzarsi, specialmente se da troppo tempo seduto, il muoversi, l’incamminarsi verso una nuova meta, più chiara nella mente.

Quante volte mi sono trovato accanto ad un figlio deluso, ad un genitore disperato, ad una coppia confusa e assieme fare un lavoro di scavo lento e paziente per rientrare in se stessi per ricomporre l’immagine di un mosaico con le tessere sparpagliate. E alla fine prendere a prestito la forza implicita di quel “si alzò e andò” senza tentennamenti e senza voltarsi indietro perché è arrivato il tempo di fare un cammino solitario di avvicinamento, che solo lui può fare. Magari piccoli passi, ma sempre in avanti. E poi, perché giudicare aprioristicamente sulla bontà di una scelta? A me piace pensare questo figlio che anche se ha fatto uno strappo nella relazione con il padre è capace di fare quello che andava fatto per recuperare e rinnovare la relazione con il padre. Lui fa la sua parte, sperando che anche il padre faccia la sua.

In una relazione vitale si è sempre almeno in due che attivamente la costruiscono o la rovinano.