Il silenzio di Eugenio Borgna

Il silenzio

Eugenio Borgna

Nell’avvicinarsi agli enigmi del linguaggio, e dei labirinti, in cui il linguaggio si nasconde, non si può non tenere presente il linguaggio del silenzio. Cosa si nasconde nel silenzio di una paziente, o di un paziente, che non ha le parole che possano dire la sua tristezza e la sua angoscia, le sue paure e le sue illusioni? Non è facile, e talora non è nemmeno possibile, decifrarne i significati che riemergono solo quando la grazia della intuizione ci aiuta a coglierli nelle loro fonti segrete.

Quante volte nell’incontro fra medico e paziente, ma anche in quello fra genitori e figli, fra insegnanti e allievi, non si sa accogliere il silenzio nel suo mistero, e questo perché non si ha il tempo di ascoltarlo, sì, il silenzio si ascolta, si può ascoltarne la voce, e ricondurlo alle sue sorgenti, che sono quelle del cuore. Il cuore come immagine, come metafora, come specchio, della conoscenza emozionale, alla quale si giunge sulla scia della intuizione: così diversa dalla conoscenza razionale.

Il silenzio, non solo quello delle sirene kafkiane, lascia intravedere ombre di oscurità e di mistero, di fascinazione e di sfida, di disperazione e di salvezza, che dovremmo sapere ascoltare. Il silenzio è dentro di noi nelle sue falde segrete, che attendono di essere svelate, ed è necessario liberarlo dagli steccati che lo imprigionano.

Sono molti i modi in cui la parola e il silenzio si intrecciano: c’è il silenzio che rende palpitante e viva la parola; c’è il silenzio che si sostituisce alla parola nel dire la gioia e la letizia, il dolore e la speranza; c’è il silenzio del cuore che nasce dagli abissi della interiorità, e che testimonia della condizione umana ferita; ma c’è anche il silenzio che si chiude in se stesso, il silenzio del deserto emozionale, il silenzio che nella depressione dilaga incapace di trascendenza. Ogni silenzio ha un suo linguaggio che in psichiatria, ma anche nella vita di ogni giorno, dovremmo sapere analizzare e decifrare nei suoi significati: senza infrangerlo. Quante volte nell’incontro fra medico e paziente, ma anche in quello fra genitori e figli, fra insegnanti e allievi, non si sa accogliere il silenzio nel suo mistero, e questo perché non si ha il tempo di ascoltarlo, sì, il silenzio si ascolta, si può ascoltarne la voce, e ricondurlo alle sue sorgenti, che sono quelle del cuore. Il cuore come immagine, come metafora, come specchio, della conoscenza emozionale, alla quale si giunge sulla scia della intuizione: così diversa dalla conoscenza razionale.

Cosa si nasconde nel silenzio di una paziente, e di un paziente, che chiedono aiuto, e non hanno, lacerati dal dolore, le parole che dicano la loro inquietudine e la loro angoscia, le loro paure e le loro illusioni, la loro tristezza e il loro desiderio di morire? Non è facile, e talora è impossibile, distinguere il silenzio, che nasca da una profonda depressione, dal silenzio che nasca invece dalla timidezza e dal desiderio di solitudine. Il silenzio della paziente che tace perché immersa in esperienze allucinatorie che le impongono di tacere, il silenzio della paziente divorata dall’angoscia che la inchioda ad una atroce solitudine, ma anche il silenzio come sfida al mondo, e come distacco dal mondo.

[…] Nella vita, e in psichiatria, dovremmo insomma educarci al silenzio, e ci si educa al silenzio, a fare silenzio, quando si riesce a fare tacere le parole che diciamo ogni giorno, e quelle che non diciamo, e sono talora ancora più disturbanti.

[…] Come distinguere ancora il silenzio, che nasce dal deserto delle emozioni, dal silenzio che rinasce dalla nostra incapacità di ascoltare e di creare una relazione di cura dotata di senso? Certo, non dovremmo mai lasciarci trascinare dalla impazienza e dalla fretta, dalla noncuranza e dalla leggerezza, a infrangere il silenzio senza ricercarne le cause, e dovremmo guardarci dalla tentazione di riempire il silenzio con parole, senza renderci conto che può essere necessario tacere e attendere, non fare magari nulla, e guardarsi negli occhi.

[…] Nella vita, e in psichiatria, dovremmo insomma educarci al silenzio, e ci si educa al silenzio, a fare silenzio, quando si riesce a fare tacere le parole che diciamo ogni giorno, e quelle che non diciamo, e sono talora ancora più disturbanti. Sì, fare psichiatria in libera professione mi ha confrontato con il tema del silenzio e della solitudine in misura ancora più sferzante che non in quella ospedaliera.

Eugenio Borgna, Il fiume della vita, Feltrinelli

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commento

Così, nella sua professione privata, una volta lasciata quella pubblica, Eugenio Borgna porta la sua bussola di orientamento per capire il dolore di chiede aiuto: l’ascolto a cui “dedicare un tempo che non fosse quello dell’orologio, e della clessidra”. Un tempo che non è scandito dal ticchettio dell’orologio nella stanza di terapia, che misura un inizio e una fine della seduta. Il suo è un andare controcorrente, è una scelta libera giustificata dalla passione per il comune destino che lega terapeuta e paziente: “Il destino originario dell’essere umano è quello di vivere insieme agli altri, noi siamo gettati nel mondo, e solo se viviamo con gli altri ci è possibile scoprire quello che noi siamo nella nostra interiorità”.

Scelta però che mal si concilia con il tempo regolato e misurato da regole professionali e scolastiche o economiche. Ricordo ancora, al tempo della mia formazione professionale a Milano, quando un formatore mi chiese quale fosse il mio compenso richiesto per ogni seduta terapeutica, si scandalizzò per il prezzo basso, perché così, mi disse, si squalificava la professione. Per me, reduce del fine rapporto professionale con la scuola e iniziata quella psicoterapeutica, erano spropositati i compensi richiesti per l’ascolto del dolore di una persona che chiede aiuto. Non mi chiese quanto durava una mia seduta, il tempo dell’ascolto, perché forse mi avrebbero espulso, se avessi rivelato che per me il tempo dell’ascolto è senza tempo. Da allora ho cominciato a sentirmi eretico della professione psicoterapeutica.

Apparentemente può sembrare ovvio che in una relazione terapeutica il tempo dell’ascolto sia fondamentale e che sia reciproco. Ma non è più così ovvio quando si pone il problema dell’ascolto del silenzio, del linguaggio del silenzio, quando il silenzio in terapia è ermetico, è un mutismo indecifrabile e nello stesso tempo significa una moltitudine di emozioni impossibilitate ad avere voce per farsi ascoltare.

È il tempo del vuoto, che non accetta le false e inutili parole, che servono solo a nascondere il disagio e la confusione del terapeuta. È il tempo di quando il silenzio doloroso del paziente richiede il silenzio attento del terapeuta. Paradossalmente il linguaggio del silenzio è comunicazione profonda, è comunicazione interpretativa dei significati dei messaggi silenziosi, sottintesi.

Linguaggio del silenzio che spesso, paradossalmente, può essere nascosto da una valanga di parole che si sovrappongono, che disorientano, che nascondono, magari senza volerlo, il vero bisogno di comunicare: i gravi sentimenti depressivi che si muovono senza essere ascoltati.

Infine,nella vita, e in psichiatria, dovremmo insomma educarci al silenzio, e ci si educa al silenzio, a fare silenzio, quando si riesce a fare tacere le parole che diciamo ogni giorno, e quelle che non diciamo, e sono talora ancora più disturbanti”. Quindi può esserci un’autoterapia se si pratica il silenzio, se si trova la possibilità di vivere il silenzio, se si riesce a chiudere la porta e uscire per qualche tempo e in un luogo isolato, lontano dai rumori frastornanti della città. E’ un tempo per parlare con se stessi, per interrogarci su chi siamo, dove andiamo. E’ un fare deserto dentro di sè.

Ricordo che ho praticato questa autoterapia inizialmente quando studiavo filosofia a Milano e quando le condizioni me lo permettevano. La prima volta ho fatto un “ritiro” trovando ospitalità presso i monaci cistercensi dell’Abbazia di Chiaravalle a Milano. Esperienza a cui sono rimasto fedele negli anni successivi nei diversi luoghi dove ho abitato fin quando ho potuto.