” Spesso mi vengono chiesti chiarimenti circa il mio metodo analitico o psicoterapeutico. Non posso rispondere in modo univoco: la terapia è diversa per ogni caso. Quando un medico mi dice che segue rigorosamente questo o quel metodo, ho i miei dubbi sull’efficacia della sua terapia. È stato scritto tanto sulla resistenza che oppone il malato, da far sembrare quasi che il medico voglia tentare di imporgli qualcosa, mentre la cura dovrebbe provenire spontaneamente dal malato stesso. La psicoterapia e l’analisi variano tanto quanto gli individui umani. Per quanto è possibile tratto ogni paziente come un caso individuale, perché la soluzione del problema è sempre individuale: regole generali si possono stabilire solo cum grano salis! Una verità psicologica è valida solo se si può anche capovolgere: una soluzione che può essere fuori questione per me, potrebbe essere proprio quella giusta per qualcun altro.
Naturalmente, un medico deve avere familiarità con i cosiddetti “metodi”; ma deve guardarsi dall’applicarli in modo stereotipato Le premesse teoriche vanno applicate con cautela.
Oggi forse sono valide, domani lo saranno altre. Nelle mie analisi, non vi hanno alcuna parte. Non sono sistematico, e volutamente. Secondo me, avendo a che fare con individui, ciò che importa è la comprensione dell’individuo. Abbiamo bisogno di un linguaggio diverso per ogni paziente: in un’analisi mi si può sentir usare il linguaggio di Adler, in un’altra quello di Freud.
L’importante è che io mi ponga dinanzi al paziente come un essere umano di fronte a un altro essere umano: l’analisi è un dialogo, che richiede due interlocutori. L’analista e il paziente seggono uno di fronte all’altro, gli occhi negli occhi: il medico ha qualcosa da dire, ma anche il paziente.
Dal momento che l’essenza della psicoterapia non consiste nell'”applicare un metodo“, il solo studio della psichiatria non è sufficiente. Io stesso ho dovuto lavorare ancora molto prima di possedere il bagaglio necessario per la psicoterapia. Fin dal 1909 mi resi conto che non potevo curare le psicosi latenti se non capivo il loro simbolismo, e fu allora che mi misi a studiare la mitologia.
Con pazienti intelligenti e colti lo psichiatra ha bisogno di conoscenze più vaste di quelle meramente professionali. Deve capire, al di là di ogni assunto teorico, quali sono le autentiche motivazioni del paziente, altrimenti provoca inutili resistenze. Non si tratta, dopo tutto, di confermare una teoria, bisogna invece che il paziente riesca a comprendersi come individuo. Questo, comunque, non è possibile senza un raffronto con le concezioni collettive, di cui il medico deve avere conoscenza. Perciò il semplice tirocinio medico non è sufficiente, poiché l’orizzonte della psiche umana comprende infinitamente di più del limitato campo visivo del gabinetto di consultazione medica.
L’anima è certamente più complessa e inaccessibile del corpo: rappresenta, per così dire, quella metà del mondo che perviene all’esistenza solo quando ne diveniamo coscienti. Per questa ragione la psiche costituisce un problema non solo personale, ma universale, e lo psichiatra ha a che fare con un intero mondo.
Oggi possiamo vedere, come mai in passato, che il pericolo che ci minaccia tutti non deriva dalla natura, ma dall’uomo, dall’anima dell’individuo e della massa. Il vero pericolo è nell’aberrazione psichica dell’uomo. Tutto dipende dal fatto che la nostra psiche funzioni bene o no: se certe persone perdono la testa, oggi, la conseguenza è il lancio della bomba all’idrogeno!
Lo psicoterapeuta non deve però limitarsi a capire il paziente; è importante anche che capisca se stesso. Per questo motivo la conditio sine qua non della preparazione dell’analista è la sua stessa analisi, la cosiddetta analisi didattica. Il trattamento del paziente comincia, per così dire, dal medico: solo se questi sa far fronte a se stesso e ai suoi problemi, sarà in grado di proporre al paziente una linea di condotta. Ma solo allora. Nell’analisi didattica il medico deve imparare a conoscere la propria anima e a prenderla sul serio: se egli non sa farlo, non potrà apprenderlo neppure il paziente. Questi perderà una parte della sua che non ha imparato a conoscere. Non basta perciò, nell’analisi didattica, acquisire, un sistema concettuale: il medico deve rendersi conto che l’analisi lo riguarda, che essa ha che fare con la vita reale, e non è un metodo che si possa imparare a memoria (in senso letterale!) “.
Da ‘Ricordi, sogni e riflessioni’, Milano, Il Saggiatore, 1965, pp. 158-159.
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Inaspettata lettura, grazie ad un’amica che ha pubblicato la pagina, inaspettato specchio in cui mi sono visto chiaramente per la prima volta. Io sono arrivato da solo alle stesse conclusioni di Jung senza conoscere questa sua pagina e senza averlo seguito in qualche sua scuola. Probabilmente perché stordito e confuso dalla esponenziale moltiplicazione di scuole e corsi di apprendimento e insegnamento di psicoterapia, tanto da dubitare che c’è scienza nella psicoterapia. La pagina nonostante sia stata scritta da Jung più di 60 anni fa è attualissima.
Cos’è la psicoterapia per Jung? È applicazione di regole e metodi scolastici per curare sofferenze psichiche, i sintomi psicopatologici?.
No, risponde Jung, perché:
- “la cura dovrebbe provenire spontaneamente dal malato stesso”, che dovrebbe essere in grado curare se stesso. D’altronde la malattia psichica c’è sempre stata, perché i problemi del vivere ci sono sempre stati e ognuno in qualche modo è sopravvissuto. Certo, non tutti allo stesso modo, altri in modo forzato o emarginati secondo le terapie di allora.
Ed è per questa funzione attiva che deve avere il paziente nella cura di sè stesso, che in questi ultimi anni con l’esperienza acquisita sul campo, di fatto metto alla prova chi mi chiede un colloquio terapeutico. Il colloquio è gratuito e di lunga durata in cui si affronta il problema sintomatico, la storia familiare elementare e specifico la mia modalità terapeutica. Lascio poi libera la persona di ripensare su quanto abbiamo detto e solo dopo ritelefonare per l’eventuale inizio della terapia. Pochi sono quelli che ritelefonano, quelli veramente motivati a fare con me, questo percorso di psicoterapia, costruendo assieme una buona alleanza terapeutica, ognuno con il suo ruolo e la sua capacità.
La psicoterapia è un incontro fra due sconosciuti, “l’analisi è un dialogo, che richiede due interlocutori”, due attori, dico io, dove non c’è uno che parla e l’altro che ascolta, l’uno attivo e l’altro passivo, ma entrambi impegnati fortemente, ognuno con la sua parte, a capire il senso di un malessere sconosciuto: il sintomo psicopatologico.
2. “ogni paziente è un caso individuale, e perché la soluzione del problema è sempre individuale”. Perché ogni paziente è persona, è individuo unico. E ogni individuo vive e ha vissuto un groviglio di eventi, accadimenti, sentimenti, fallimenti, relazioni in una storia familiare e relazionale unica, che non si sovrappone a quella di nessun altro. Per questo non può esserci una psicoterapia standardizzata secondo regole e metodi che non hanno certezze scientifiche, “oggi forse sono valide, domani lo saranno altre”. Io piuttosto amo definire la psicoterapia un’arte.
Infine “Lo psicoterapeuta non deve però limitarsi a capire il paziente; è importante anche che capisca se stesso”. Capire se stesso vuol dire sperimentarsi sempre in un lavoro di conoscenza e autoconoscenza in un gioco di specchi. Conoscere e far conoscere all’altro le sue fragilità è anche un apprendimento di sé, in qualche modo l’altrro mi fa da specchio in cui mi vedo non solo capace ma anche con i miei limiti e le mie fragilità. E di questo ringrazio i miei pazienti per quello che mi hanno dato.
Trovo davvero emozionante il documento di oggi perché ci porta ad una profonda riflessione sul difficile “mestiere” del terapeuta. Lo scritto di Jung rende ancora più vicina, direi intima, la figura dello psicologo che, per render efficace la sua azione, deve necessariamente saper padroneggiare un ventaglio di registri comunicativi e ricercare di volta in volta, di caso in caso, quello più adatto alla costruzione della “medicamentosa” comunicazione. Ciò perché diverse sono le persone per cultura, per esperienze, per vissuto, per patologia, che al terapeuta affidano la propria anima ferita (significativa la definizione che viene data dell’anima / psiche). Tanto è possibile solo se lo psicologo è capace di ascoltarsi continuamente, quasi dovesse egli stesso sperimentarsi in una quotidiana autoanalisi. Bene, proprio questo elemento di comunione tra due soggetti diversi per ruolo, può rendere meno accidentato il difficile cammino verso la scoperta di noi stessi. La condivisione di un percorso delicatissimo che ha bisogno di comprensione, di attenzione e di attenzioni può essere reso sopportabile e dare una speranza di uscita dal tunnel.
Ciao, Rino, vedo ora il tuo commento, per mia imperizia nell’uso dello strumento.
Ovviamente condivido quanto magistralmente hai scritto e te ne sono grato.
Mi consola e mi raffoorza nella mia convinzione che quella imboccata è la strada giusta,
per in questo campo non mi pare che sia molto condivisa.
Molto bella l’idea della psicoterapia come una ricerca dialogica, sa molto di… filosofico, in specifico sa molto di socratico.
Anche la medicina, che dovrebbe curare il corpo con conoscenze e metodi e procedure e protocolli specifici non è una “scienza perfetta”, così pure la psicoterapia, che si avvale di un metodo di ricerca scientifico, non è una “scienza perfetta”, perché nessuno è un uomo perfetto, ognuno è unico nelle sue “imperfezioni”, ognuno è un mondo a sé, e un mondo per gli altri.
Grazie a lei, Giuseppe, per la sua presenza saggia e sapiente.
Mi scuso per il mio ritardo colpevole nella riposta, dovuto a mia imperizia
nell’uso del blog.
Grazie per il suo complimento per il mio modo “socratico” di fare psicoterapia,
non dare risposte preconfezionate alle richieste di aiuto per la sofferenza patita.
Non è un metodo scolastico appreso a scuola di brillanti eruditi, ma appreso
gradualmente con un saper fare ricerca, partendo specialmente dai fallimenti.