“Qualche tempo fa incontrai, al termine di una mia conferenza su Lacan, un mio vecchio professore di filosofia che mi abbracciò dicendomi: «Allora è vero quello che ho sentito dire di te, che sai spiegare Lacan anche ai sassi!» Fu un complimento che mi rivelò una verità che solo in quel momento mi balzò agli occhi in tutta la sua evidenza. Perché riuscivo a spiegare Lacan ai sassi?
Ero stato un bambino considerato idiota. Fui bocciato in seconda elementare perché giudicato incapace di apprendere. Quando parlo, cercando di insegnare qualcosa, è sempre a lui che mi rivolgo, al bambino idiota che sono stato. È per lui che riduco, sminuzzo, – mastico le cose sino all’osso. Nelle persone alle quali mi rivolgo mentre insegno, cerco sempre il volto annoiato e un po’ ebete del bambino che sono stato. Io parlo a lui che è il mio testimone. Distillo le parole, ripeto lo stesso concetto in forme leggermente differenziate, ci giro attorno, lo spremo come fosse un limone per provare a estrarne tutto il succo. Parlo a lui.
Questo è il mio segreto. Devo rendere accessibile l’oggetto di cui parlo oltre che a me stesso a quell’altro me che mi ascolta e non capisce. Parlo a lui. Lo cerco nei volti sconosciuti degli altri. È il mio partner invisibile, l’uditore per eccellenza, il mio test permanente”.
Massimo Recalcati, L’ora di lezione, 2014 Einaudi
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“Parlare ai sassi”, “Parlare ai muri”. Chi è stato insegnante sa cosa vogliono dire queste espressioni: parlare nel vuoto, parlare in una classe dove nessuno ti ascolta, o dove nessuno capisce, tranne qualche eccezione. E’ una lamentela sul basso livello di attenzione degli studenti o dello scarso interesse a quello che l’insegnante spiega. E oggi pare sia una lamentela sempre più diffusa fra gli insegnanti, a tal punto che il bambino distratto e disinteressato oggi viene classificato con una nuova sindrome patologica di dubbia fondatezza scientifica, ma che assicura ricchi proventi alle ditte farmaceutiche dalla somministrazione di psicofarmaci in età infantile. A suo tempo al bambino Recalcati è bastato un cambio di insegnante per essere quello che oggi.
Qui invece lo psicoanalista Recalcati ribalta il significato del parlare ai sassi, da lamentela diventa complimento, apprezzamento, ricchezza, è l’arte del mestiere di insegnante, che sa rivolgersi a tutti e non solamente ai più dotati, a quelli che capiscono al volo. Per fare questo ci vuole arte e amore perché implica una scelta di filosofia dell’insegnamento, implica una consapevolezza dell’impossibilità di insegnare tutto.
Quando insegnavo mi accontentavo soddisfatto se i miei studenti avessero appreso solo il 50% di quanto avevo trasmesso con abbondante ridondanza. Questa era la mia misura dell’insegnamento e della mia soddisfazione. Privilegiavo la relazione che non i contenuti, non perché i contenuti fossero inutili, perché un sapere senza contenuti sarebbe un sapere vuoto o ripetitivo. Ma perché capivo che se non ci fosse stato un coinvolgimento emotivo, una relazione positiva con l’insegnante che appassiona, che propone i contenuti finalizzati ad un saper essere e un saper fare nella società, poca cosa sarebbe un programma ministeriale rigido, standardizzato, freddo. Anch’io sono stato alunno distratto e insofferente, come penso quasi tutti gli alunni, con certi insegnanti che non tramettevano interesse conoscitivo, limitandosi a dire pedissequamente quello che c’era già sul libro di testo.
Divagavo abbondantemente quando spiegavo, mi facevo guidare dalle associazioni delle idee, le seguivo vedendo gli alunni interessati, percorrendo sentieri non previsti, né programmati, facendomi guidare dall’istinto, anche se “perdevo il filo del discorso”. Mi sentivo soddisfatto e mi piaceva entrare in classe per un “incontro” con gli alunni. A mio vantaggio c’era la mia giovane età quando ho cominciato ad insegnare (25 anni) e contemporaneamente l’aver vissuto l’stanza di cambiamento diffuso nella scuola e nella società. (1968)
Comincia così la mia storia di “eretico” nell’insegnamento scolastico e ora nel lavoro psicoterapeutico.
Anche adesso quando sono in terapia, non sono evanescente, non mi arrocco al di là della barricata, non riesco solo ad ascoltare, faccio commenti, stando attento a non sopraffare il paziente nel suo dire. A volte anche qui perdo il filo del discorso, me ne accorgo, non mi vergogno di ammetterlo, e lo esplicito all’altro che è con me, non per semplice divagazione, ma perché la seduta è un “incontro” terapeutico, anche se programmato, basato su patto segreto, su un’alleanza terapeutica positiva che richiede un coinvolgimento reciproco, anche se con livelli diversi e con ruoli diversi. Perciò durante la seduta si “improvvisa”, si “divaga”, si percorrono con libertà sentieri imprevisti e sconosciuti per cercare e dare senso al problema sconosciuto.
Perdere il filo del discorso capita anche al paziente avveduto, che prontamente si scusa e se ne rammarica. Lo rassicuro dicendogli che il tempo della seduta è un tempo della ricerca, della raccolta di segni interpretativi, anche se può apparire caotico. E che c’è un altro tempo tassativo, quello della revisione di quanto detto nella videoregistrazione della seduta, dove si mette ordine logico e semantico a quanto detto. Questo è il vantaggio metodologico della terapia familiare.
C’è stato un paziente che aveva iniziato un percorso terapeutico con un altro psicoterapeuta e che a mia domanda perché non avesse continuato, mi rispose che era stufo di pagare per fare monologhi con uno che stava sempre zitto e con il sospetto che si fosse addormentato.
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