Quando la relazione si blocca
Giuseppe Basile
Sottostante al fenomeno dello stallo relazionale c’è la pretesa di conoscere l’altro e se stessi. Frequente è il modo di dire, specialmente nelle situazioni conflittuali: “Io so già come la pensi”, “Io so già chi sei”, “Io son fatto così” come se avessimo la testa di cristallo e vi si possa vedere quello che c’è dentro. Come se fossimo sempre gli stessi, quelli di dieci anni prima, senza accorgerci che siamo cambiati, che cambiamo anche senza accorgerci. Non vediamo il nostro cambiamento, ma vediamo quello di chi ci sta vicino.
Ma il cambiamento implica anche il cambiamento della relazione, cioè il modo di stare insieme con l’altro e il cambiamento della relazione comporta necessariamente una attivazione della comunicazione, che il più delle volte si blocca, “non ci si parla”, non si affronta cioè il perché e il modo del cambiamento e soprattutto si blocca metacomunicazione (chi sono io per te , e chi sei tu pe me), anche perché siamo analfabeti delle regole della metacomunicazione. Subentra così il silenzio patologico o il parlar d’altro per divagare per non affrontare il problema, lo stallo della relazione.
Così, l’altro (padre, madre, marito, moglie, figli, fratelli) con cui siamo in relazione rimane, nonostante la conoscenza che ne abbiamo, uno sconosciuto, e anche noi sconosciuti anche a noi stessi. Possiamo solo tentare di spostare il limite della conoscenza un po’ più in là ogni volta, specialmente quando la relazione con l’altro o con noi stessi perde la sua funzione di benessere o quando troviamo difficoltà con l’altro che ci sta a cuore.
Si impone allora il “Perché” del padre della parabola di Luca, perché l’altro, il figlio, ci appare diverso, sconosciuto nei suoi modi di comportarsi e di relazionarsi. Lo stesso “Perché” si impone alla figlia/o per poter capire la relazione che lo lega al padre/madre prima che si rompa definitivamente.
È possibile un nuovo punto di incontro ad un livello superiore rispetto a prima? È possibile dare un senso, un significato a modi di essere e comportamenti relazionali che debordano dalla linea, dalla norma finora conosciuta. Ha un senso il caos, l’imprevedibilità in cui sembra essere precipitata la relazione?
Possibile, anche se non tutto è conoscibile. Non si tratta di ricorrere a maestri, ma cominciare a fare quello che fa il figlio della parabola lucana: il rientrare in se stessi, anche se dice Freud che non siamo però padroni nemmeno in casa nostra. Bisogna essere capaci di fermare il tempo dell’affaccendarsi per fare spazio al tempo del silenzio, sgombrare la mente per un momento dai fardelli della quotidianità. E’ anche per questo che sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, dove gli antichi greci si recavano per trovare risposte ai problemi, era scolpito in grande e come ammonimento: “Conosci te stesso“, che, tradotto, vuol dire che le risposte che cerchiamo son dentro di noi, se riusciamo a conoscerci.
Mi piace ripetere alle persone che si affidano a me per una terapia che il tempo della seduta è un tempo sospeso, un tempo dell’ascolto, volutamente un tempo lungo per fare spazio dentro di sé per prendere contatto con se stessi e con l’altro presente o assente con cui si è in relazione.
Rimettersi in gioco nonostante le difficoltà e le ferite subite può apparire arduo, e spesso lo è, ma se c’è amore rifiorisce la speranza e la fiducia di poter contare ancora sull’altro.