Eugenio Borgna
La parola, in psichiatria, può salvare una persona, o può perderla. Quasi al di là dei suoi contenuti, sono i modi, con cui la parola è comunicata (i gesti e il silenzio, lo sguardo e le espressioni del volto), a definirne la dimensione terapeutica, o quella antiterapeutica. La parola è esposta a rischi molto alti: è una parola sempre arrischiata; e chiunque sia sommerso, o anche solo sfiorato, da una esperienza umana, che trascini con sé angoscia e tristezza, dissociazione e smarrimento, rivive in sé antenne sensibilissime nel cogliere il senso nascosto delle parole; e ogni parola può essere, di volta in volta, quella decisiva: la parola che crea fiducia, e stabilisce un contatto emozionale (la parola che incrina le solitudini e libera gli aquiloni della speranza nei vortici storditi del vento); ma la parola, anche, che accresce nella sua indifferenza, o nelle sue dissonanze, l’isolamento e la introversione, il dolore e la fuga dal reale.
Come è possibile, allora, che non abbiano a spalancarsi in questo caso baratri di infinita sofferenza?
La parola che si fa, così, desolatamente antiterapeutica, e che non dice proprio nulla alle anime ferite: dilatandone le sofferenze.
Non può non essere indiziariamente terapeutica la parola che nasca nel contesto di un colloquio: al quale sia estranea ogni indifferenza e nel quale si abbia disperatamente a cogliere, nell’altro che delira o si angoscia fra gli artigli della solitudine, quello che ancora ci unisce in un destino comune e in una comune solidarietà: in una comunità di destino come dice, nel suo vertiginoso esprit de finesse, V.E. von Gebsattel [86]. Ogni parola è terapeutica nella misura in cui, a chiunque si rivolga (ad una persona depressa, o ad una angosciata, ad una persona disperata, o ad una psicotica), riesca ad essere una parola autentica e possa essere colta, possa essere ri-conosciuta, nella sua trasparenza e nella sua assolutezza da chiunque la ascolti. Non ogni cosa può essere comunicata, del resto, ad ogni paziente: ci sono cose essenziali e cose che non sono essenziali; ci sono cose (ci sono parole che le fondano) che allontanano, e dilatano le distanze, e ci sono cose che avvicinano e allentano le solitudini. Le parole essenziali sono quelle che non feriscano mai e non siano ambigue; e che, già in questo, accrescano la comunicazione e la interscambiabilità degli sguardi.
La parola terapeutica nasce nel contesto di una relazione interpersonale: da questo nostro essere un colloquio e da questo nostro essere segnati da un comune destino.
La parola è dialogo ma la parola è anche silenzio: una alternanza fra parola (dialogo) e silenzio è oscillante e instabile; nel senso che il dialogo (ferito) può finire nel silenzio e nondimeno il silenzio può precedere il dialogo (la parola) in una reciprocità incalcolabile e vertiginosa. Le parole, labili tracce dell’inconoscibile ed effimere metafore del reale, si moltiplicano nella ricerca di una definizione accettabile del silenzio e del dialogo, della solitudine e della apertura agli altri, della contemplazione e della azione, della diastole e della sistole.
Il discorso fenomenologico ed ermeneutico, che tenta di dare un nome all’indicibile, definisce e allude, teorizza e rende concrete le cose, avvicina e allontana i confini del reale; ma, nella storia (nella storia della vita di ciascuno di noi) che passa e svanisce, che sorpassa e inutilizza i segni rugginosi e infranti di ciò che è stato detto e di ciò che è stato fatto, il discorso fenomenologico vorrebbe recuperare le tracce disperse delle esperienze essenziali della vita: quelle nascoste nel silenzio e nella lontananza, nelle penombre e nelle ombre.
Il silenzio, anche, come abdicazione alle parole illusorie e alle convenzioni linguistiche; e come chiusura al mondo delle chiacchiere e come restaurazione di una interiorità balenante.
La parola e il silenzio nel discorso fiammeggiante di María Zambrano: “E il silenzio, il silenzio che si fa è come un vaso, atto a recepire la parola definitiva e a conservarla senza che svanisca né si versi, affinché permanga senza passare né entri nella catena delle parole che si susseguono le une alle altre, in una moltitudine. Esiste infatti la moltitudine delle parole che hanno perso qualità e quel minimo di silenzio necessario a sostenerle e a farle apparire; una moltitudine che può trasformarsi in un esercito in marcia” [199].
La psichiatria ha a che fare continuamente con le parole: con le parole che portano luce, e con quelle che portano in sé strisce di dolore e di opacità; con le parole che fanno decollare la speranza, e con quelle che la inaridiscono.
Eugenio Gorgna, Parlarsi. La comunicazione perduta Einaudi
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Commento
“La parola, in psichiatria, può salvare una persona, o può perderla”
Questa è la verità per chi fa psicoterapia, che prima di tutto è un incontro, una relazione fra chi cerca aiuto e l’altro che si pensa sia in grado di aiutarlo. Ed entrambi usano parole, sia chi soffre, sia chi cura. Incontro che cresce o si interrompe, e non è dato prevederlo e le ragioni possono essere tante e il più delle volte nascoste e imprevedibili.
Certamente quelle che contano sono le parole che si usano in tutta la loro pregnanza, semantica, relazionale, contestuale, e con tutto quello che non è verbale, compreso il silenzio.
Nell’esperienza psicoterapeutica ci sono gli abbandoni e i fallimenti, di cui raramente si parla apertamente nei circuiti degli addetti ai lavori, nelle pubblicazioni specifiche, né si trovano statistiche percentuali differenziali. Si trovano e si narrano quasi sempre solo i casi positivi.
Ovviamente anch’io non ne sono esente, e in questi ultimi tempi, quasi alla fine della mia carriera, me ne faccio carico, non tanto per curiosità scientifica, quanto piuttosto per il dovere etico professionale insito nella relazione terapeutica del farsi carico, del prendersi cura dell’altro che si affida a te. E l’altro non è mai uno qualsiasi, ma è sempre un nome che identifica una persona e il suo vissuto.
Allora chiedersi cosa è successo, domandarsi, prendendo a prestito il titolo di un articolo pubblicato,[1] “Io sono qua, tu dove sei”, vale anche per la relazione terapeutica, è l’aspetto etico del farsi carico dell’altro, anche se non è scritto da nessuna parte. Se l’altro non si fa vivo, o se ne va in silenzio non può lasciare indifferenti e non chiedersi perchè, non assumendosene la responsabilità. Sono stato fermo io, mentre l’altro aveva bisogno di muoversi? o è l’altro che da lontano manda segnali che io non so interpretare? o sono io che ho usato .una parola antiterapeutica, anche senza volerlo e senza saperlo. Una mia paziente me l’ha detto esplicitamente: “Io non voglio toccare questo argomento, perché non voglio fare quello che lei mi ha suggerito di fare nell’ultima seduta”. Rispondo che non ricordo e che comunque non era nelle mie intenzioni, e se ho usato “quella parola” non era nel suo significato che invece lei le aveva dato.
È la parola “antiterapeutica”, ambigua nella sua natura e nel suo uso, “che può salvare una persona o perderla”, che può spingerla ad andar via, a rompere “l’alleanza terapeutica”, che, adesso si sa, è il fattore predittivo di un esito positivo della terapia, e non tanto il modello teorico di riferimento o le tecniche usate.
Anche il terapeuta anche ha i suoi limiti e le sue fragilità, non sempre viste e riconosciute. Fortunatamente, nel mio caso, siamo in due a seguire il caso e la tassativa videoregistrazione della seduta. Gli occhi dell’altro e quelli della videoregistrazione sono la maggior difesa alla miopia terapeutica.
[1] “Io sono qua, tu dove sei?”, (https://www.giuseppebasilepsicoterapeuta.it/io-sono-qui-tu-dove-sei-michela-marzano/)